Nessuno fra gli storici dell’arte dell’Otto e Novecento ha sollecitato tanto l’interesse e lo studio da parte degli artisti contemporanei come lo storico tedesco Aby Warburg.
Vi è certamente più di una ragione se l’accostamento tra Warburg e l'arte contemporanea non sembra affatto bizzarra o forzata. Una prima motivazione, che non rende arbitrario questo nesso, sta nel fatto che diversi artisti contemporanei hanno affermato un loro diretto debito nei confronti dello storico tedesco. L’opera di Warburg ha permesso difatti agli artisti di individuare percorsi audaci ed alternativi rispetto ai classici imposti dalla storia dell’arte di fondazione winckelmanniana ed estetizzante. Inoltre si è potuto sperimentare e trarre nuove suggestioni da temi considerati di dominio prettamente accademico, come ad esempio, il rapporto con gli artisti del passato, la tradizione classica, il legame fra immagine e parola, la trasmissione di iconografie e forme e la relazione con culture extraeuropee.
Non è un caso quindi che alcuni dei concetti chiave del pensiero warburghiano, come Pathosformel -immagini archetipe che sopravvivono nelle epoche seguendo stili diversi- e l’esperienza work in progress del Mnemosyne -un atlante figurativo delle preformazioni anticheggianti esposto su tavole- abbiano e stiano tutt’ora influenzando generazioni d’artisti. Basti pensare all’opera video The Greeting (1995) di Bill Viola proiettato per la prima volta accanto alla Vestizione del Pontormo di cui è debitore (Palazzo Strozzi, 2017), al monumentale lavoro di Gerard Richter, Atlas, un archiviocollezione di fotografie, ritagli di giornali e schizzi che l’artista sta assemblando dagli anni Sessanta, o alla mostra interdisciplinare ATLAS: How to carry the world on one’s back? (2011, Reina Sofia Madrid, ZKM Center Karlsruhe) curata dal filosofo Georges Didi Huberman che attraversa il XX e il XXI secolo prendendo l'atlante warbughiano Mnemosyne come punto di partenza.
Il titolo della mostra Pathos sancisce da subito la vicinanza con il metodo di lettura iconografico di Warburg e raggruppa qui opere di artisti appartenenti a generazioni ed epoche differenti, permettendoci di scoprire i processi che guidano nel loro fare; Lynda Benglis, Marco Cingolani, Vincenzo Gemito, Wilhelm Von Gloeden, Girolamo Induno, Simon Linke, Robert Moskowitz, Jack Pierson, Klaus Rinke. La mostra nasce dalla volontà di individuare fra le opere esposte quel substrato mitico condiviso, ovvero quelle immagini archetipe (Pathosformel) risultati di sedimentazioni che ritornano nel tempo, al fine di coglierne non il passato bensì la sua sopravvivenza (Nachleben) nel presente.
Scavare la memoria incosciente delle immagini, ciò che testimoniano e ciò che ci tramandano diventa il compito di ogni visitatore al quale è lasciata la scelta di seguire lo storico dell’arte tracciandone però una propria via, un proprio atlante Mnemosyne. Consegnare alle immagini il tempo che contengono e a chi le guarda, non solo l’estasi di ciò che nascondono, ma anche il potere e le inquietudini che ci percorrono, pare essere la sfida riuscita di Pathos.