Il dipinto oggetto del restauro è una tela ad olio raffigurante il Martirio di Santo Stefano attribuibile, senza ombra di dubbio, alla mano dell’artista Carlo Ceresa (San Giovanni Bianco, 20 gennaio 1609 – Bergamo, 29 gennaio 1679).
Come riporta lo storico De Pescale[1], il Ceresa è stato un prolifico autore di pale d’altare e di ritratti realizzati nell’arco di mezzo secolo per una committenza prevalentemente locale. Il suo linguaggio asciutto e severo, lontano dall’enfasi e dalle esuberanze barocche, si inserisce a pieno titolo nella tradizione lombarda della “pittura della realtà”. Inoltre, a livello storico-critico, la figura del Ceresa è stata rilanciata dallo storico dell’arte Roberto Longhi che lo inserì tra i protagonisti della celebre mostra “I Pittori della realtà in Lombardia” (Milano, Palazzo Reale, aprile-luglio 1953)[2] accanto a Moretto, Moroni, Savoldo, Cavagna, Cifrondi, Ceruti e Fra’ Galgario.
Benché non esista un’approfondita documentazione, si è riusciti comunque a giungere all’attribuzione attraverso l’attenta analisi dei materiali e della tecnica esecutiva. La pala, infatti, raffigura la lapidazione di Santo Stefano, il protomartire, ovvero il primo ad aver versato il sangue per aver professato la propria fede in Cristo. La vicenda viene narrata negli Atti degli Apostoli (6-7) ed è assai frequentemente rappresentata nella storia dell'arte.
IL SOGGETTO
Il santo martirizzato si trova al centro della composizione. È inginocchiato di profilo sul terreno con sguardo supplichevole. Volge il volto verso il cielo, dove, sopra una nuvola, sono seduti Dio padre, nella tipica veste all’antica con tunica verde e manto dorato e che posa il braccio destro sul globo, e alla sinistra Cristo, avvolto nel panneggio bianco che gli copre le nudità. Sopra i loro capi lo Spirito Santo, presente come luce, attraverso due fasci dorati scende da un punto esterno alla tela e si dirige verso il santo, illuminandolo. La potente luce colpisce anche l’aguzzino di sinistra, accovacciato all’angolo inferiore, e ci fa intuire la sua intensità poiché l’ombra di quest’ultimo si allunga sino alla dalmatica del santo riportandone la silhouette. Santo Stefano, come da tipica sua rappresentazione iconografica, indossa la dalmatica rossa sopra la veste bianca finemente decorata su maniche ed orlo di merletti e nappe in vita. Il bianco ed il rosso del santo irrompono nella composizione e diventano fulcro centrale della narrazione da cui si snodato i vari personaggi posti in tre piani differenti. Sulla sinistra, in primo piano, accanto al santo c’è un aguzzino accovacciato all’angolo della tela, con braghe azzurre ed una camicia slacciata e scomposta, ed in testa una pezza a righe verdi, il quale sta cercando nel terreno delle pietre. Sulla destra, in piedi, si trova un uomo di profilo con un panneggio bianco svolazzante cinto in vita da una corda e dai pantaloni ocra e sulla gamba ha un nastro a righe verdi come per la bandana dell’altro aguzzino. L’uomo è in movimento, difatti intuiamo il suo passo dalle gambe disegnate nell’atto di caricare il piede sinistro mentre la gamba destra è fuori dalla tela. L’uomo, inoltre, sta sollevando le braccia sopra il capo, piegandole al gomito e stringendo un enorme masso. Difatti l’artista, Ceresa, ci lascia intuire il peso della pietra e l’atto di lasciarla ricadere sopra il corpo di Santo Stefano.
In secondo piano, con toni più scuri, vi sono altri carnefici. Sopra l’aguzzino, vediamo accovacciato un uomo in atto di chinarsi, con turbante e panneggio arancio, che raccoglie una grande pietra da terra. Dietro a questi, si trova un altro personaggio in turbante bianco ed “intrappolato” nel movimento dal fluttuare dell’enorme mantella violacea che crea un gioco circolare intorno alla sua figura. Il suo volto è frontale rispetto l’osservatore e contratto in un ghigno mentre fissa il santo. Continuando sulla destra, troviamo, tra l’uomo atto a scagliare il masso sulla destra e l’uomo dalla mantella viola, un personaggio posto a tre quarti, il quale ci mostra la spalla di schiena e si volta osservando Santo Stefano di profilo. Quest’ultimo indossa una camicia bianca con gilet verde a bordi dorati, un enorme panneggio ocra giallo ed in testa una bandana rossa tenuta stretta in fronte da un laccio anch’esso dorato. Anche questi ha in mano una pietra e sta per lanciarla al santo.
In terzo piano si scorgono tre teste mescolate nell’ombra del fondo. A sinistra il profilo architettonico di un edificio composto da una cupola e delle torri. Sullo sfondo un cielo plumbeo interrotto sulla sinistra dalle nuvole bianche su cui appare la Trinità e sulla destra da un angelo bambino dai ricci dorati che arriva nudo diagonalmente in volo per dare al Santo la palma del martirio.
STORIA DELL’OPERA
Gli studi condotti dal Dott. Enrico De Pascale[3] sulla pala hanno dimostrato che l’opera è nata per la Parrocchiale di Santo Stefano degli Angeli in Val Calepio, oggi comune di Carobbio degli Angeli, Bergamo. L’opera è menzionata da Luisa Vertova (1983) tra le opere del pittore considerate perdute: “Nel Borgo di Santo Stefano distretto di Trescore, all’altar maggiore della Parrocchiale, il Mairone da Ponte cita un Martirio di Santo Stefano “che vuolsi del celebre nostro Moroni”. Moratti e Fornoni lo assegnano al Ceresa…” (L.Vertova, 1984, p.629, n.340)[4].
Effettivamente sia Moratti (1900)[5] che Fornoni (1915-20 ca.)[6] assegnano senza alcun dubbio la tela a Ceresa. Fornoni, che la menziona come “Il Martirio di S.Stefano in S.Stefano degli Angeli”, commetta un errore di trascrizione indicando come misure dell’opera "cm. 0.97x0.84” anziché, presumibilmente 1.97 x 0.84, cioè a dire, un formato quasi quadrato e alquanto ridotto, assai improbabile per la pala di un altare maggiore.
Difatti, in seguito all’analisi dell’opera in laboratorio si è potuto constatare che essa è nata in un più ampio formato e differente forma. Il telaio, non originale, è sicuramente di fattura settecentesca e, nella parte superiore nel regolo orizzontale, assume forma centinata. Lo storico De Pascale nella sua analisi sulla pala, difatti, scrive: “Che si tratti di un adattamento di epoca posteriore alla realizzazione dell’opera è dimostrato anche dal fatto che il dipinto risulta ripiegato e parzialmente “sacrificato” tanto nella parte superiore che sulla destra. Un dettaglio eloquente è il piedino sinistro dell’angioletto che risulta parzialmente nascosto in quanto ripiegato sul nuovo telaio, dietro la cornice settecentesca. Tali particolari giungono a rafforzare la mia ipotesi circa una provenienza del dipinto dall’altar maggiore dell’antica Chiesa di S.Stefano degli Angeli. Nel 1666 la chiesa fu inserita nel Sommario delle chiese di Bergamo, elenco redatto dal cancelliere della curia vescovile Giovanni Giacomo Marenzi, dove risulta che era sotto l'invocazione di Santo Stefano, e che dipendeva dalla pieve di Telgate. Tale chiesa eretta nel XVI secolo e arricchita con affreschi dei Baschenis, venne demolita nel corso del XVIII secolo per lasciare spazio all’attuale edificio, il cui altare maggiore è tuttora impreziosito da una pala con la Lapidazione di Santo Stefano di Francesco Capella (Venezia, 5 luglio 1711 – Bergamo, 1784), consegnata nel 1761 e pagata 500 scudi. Fu in tale momento, evidentemente, che la tela di Ceresa fu in qualche modo “declassata”, montata su nuovo telaio settecentesco, dotata di nuova cornice “centinata” e affissa in qualche punto della nuova chiesa, presumibilmente su un altare minore. È in questa nuova posizione che dovette essere vista e schedata prima dal Moratti (1900)[7] quindi dal Fornoni (1915-20)[8]. D’altra parte, non essendo menzionata nel puntuale Inventario dei Beni della Parrocchiale di S.Stefano degli Angeli redatto da Angelo Pinetti (1931)[9], è lecito ipotizzare che l'opera sia stata alienata in un arco di tempo compreso tra il 1920 e il 1930 circa”.
In merito al riconoscimento dell’opera a Carlo Ceresa, sempre il Dott. De Pascale, spiega come tale affermazione sia possibile attraverso lo studio delle opere indiscutibilmente attribuite all’artista, i cui attribuiti sono richiamati e riportati fortemente nella tela da noi presa in esame. Come tipico dell’artista, ritroviamo l’abituale tavolozza fatta di colori ceruleo/grigiastri di sfondo posti in contrasto con le tinte luminose e calde in primo piano, quali ocre, rossi e bianchi. Il disegno, inoltre, è sicuramente frutto dell’attento studio del Ceresa delle opere di Daniele Crespi (1597-1630), da cui prende spunto per le composizioni e per la preparazione dei cartoni, poi più volte utilizzati in altre opere. Era, difatti, comune per gli artisti dell’epoca preparare cartoni e poi riutilizzati più volte a seconda delle necessità. Infine, il ductus pittorico, è dato da una pennellata fluida e ben studiata, ottenuta con tratti sicuri e veloci, senza nemmeno perdere tempo a pulire il pennello dall’eccesso di colore in uno straccio, ma passandolo direttamente nella tela ancora da dipingere o sul retro della stessa.
IL DISEGNO
Come anticipato, il Ceresa studiava ampiamente i modelli proposti dall’artista Daniele Crespi. Nello specifico, come il Dott. Enrico Pascale, nota: “è interessante osservare che la figura del carnefice in piedi sulla destra mostra significative tangenze con un’analoga figura nella Lapidazione di Santo Stefano di Daniele Crespi (1622, Milano, Castello Sforzesco), autore che le fonti e gli studi recenti hanno riconosciuto essere un riferimento costante per la cultura figurativa di Ceresa”[10].
Secondo un modus operandi tipico del pittore bergamasco, il volto di profilo di Santo Stefano orientato verso l’alto, torna in modo pressoché identico in altre sue composizioni, confermando l’utilizzo di cartoni e disegni come modelli disponibili per le diverse necessità. Nel caso specifico si segnala una Testa di profilo (1645-50, olio su carta applicata su tela, cm 14x25) conservata nei Musei Civici di Padova (S. Facchinetti, 2012, pp. 179,190) [11] che Ceresa ha utilizzato, oltre che per il volto del nostro Santo Stefano, (si notino in particolare i dettagli del naso, dell’orecchio sinistro e del pomo d’Adamo) anche per quello del Sant’Uberto dell’Accademia Carrara e, in modo speculare, per il giovane Sant’Antonio da Padova nella pala con Madonna e Santi della Chiesa di San Pantaleone a Ponteranica datata 1648. Un dato che, oltre alle evidenze stilistiche e tecniche, consente di fissare la cronologia della nostra Lapidazione di Santo Stefano alla metà circa del XVII secolo.
Durante le indagini multispettrali si è potuto notare come l’artista facesse, prima di dipingere, un leggero disegno con il pennello, con tratti sottili e visibili unicamente all’infrarosso, e si sono potuti anche notare dei “pentimenti”. In particolare, i più evidenti, si possono osservare sul masso lanciato dal personaggio sulla destra che è stato diminuito di grandezza e nella posizione della veste del personaggio accasciato in primo piano a sinistra che in una prima stesura era stato dipinto con la veste a mezza schiena, come mostra anche l’andamento delle crettature nella ripresa a luce riflessa e soprattutto la trans-illuminazione infrarossa.
[1] Carlo Ceresa (1609-1679) Lapidazione di Santo Stefano, Enrico de Pascale, 2021.
[2] R. Cipriani, G. Testori, R. Longhi, I pittori della realtà in Lombardia: Milano (Palazzo Reale), aprile-luglio 1953, Editore Pizzi, 1953.
[3] Carlo Ceresa (1609-1679), Lapidazione di Santo Stefano, Enrico de Pascale, 2021.
[4] L. Vertova, Carlo Ceresa. Un pittore del Seicento, cat.mostra, Palazzo Moroni, Bergamo, 1983.
[5] G. Moratti, Pittori che dipinsero in Bergamo e sua provincia, compresa la Val Camonica, manoscritto, 1900, I, p.277, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo.
[6] E. Fornoni, Pittori Bergamaschi, manoscritto (1915-29 ca.), Curia Vescovile, Bergamo, II, p. 186, n°77.
[7] G. Moratti, Pittori che dipinsero in Bergamo e sua provincia, compresa la Val Camonica, manoscritto, 1900, I, p.277, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo.
[8] E. Fornoni, Pittori Bergamaschi, manoscritto (1915-29 ca.), Curia Vescovile, Bergamo, II, p. 186, n°77.
[9] A. Pinetti, Inventario degli oggetti d’arte d‘Italia, Provincia di Bergamo, Roma, 1931, pp. 198-199.
[10] Carlo Ceresa (1609-1679) Lapidazione di Santo Stefano, Enrico de Pascale, 2021.
[11] S. Facchinetti (a cura di), Carlo Ceresa. Un pittore del Seicento lombardo tra realtà e devozione. Catalogo della mostra (Bergamo, 10 marzo-24 giugno 2012), Galleria d’arte moderna e contemporanea, Bergamo 2012.